| 01 ottobre 2022, 18:38

«Voglio ascoltare i veronesi ed entrare in contatto con loro»

«Voglio ascoltare i veronesi ed entrare in contatto con loro»

No, non se l'aspettava la valanga di affetto che lo scorso 9 settembre ha ricevuto dalla comunità reatina Monsignor Domenico Pompili. Ce lo ha confessato lui stesso: «non avevo mai misurato fino in fondo la stima da cui sono stato circondato prima di dover annunciare il mio trasferimento». Eppure, quella mattina, durante la sua ultima messa, in una piazza Cesare Battisti colma di persone, era chiaro che qualcosa si fosse spezzato: un filo invisibile che si era creato nei sette anni in cui Mons. Pompili si è dedicato, anima e corpo, alla comunità di Rieti, la prima che si è trovato a guidare dopo l'ordinazione episcopale. Un cammino lento ma intenso, costellato di momenti gioiosi da ricordare e di parentesi tragiche - come il terremoto di Amatrice del 2016 - in cui il Vescovo non ha mai fatto mancare il proprio sostegno. A ripagarlo dell'impegno, nella mattina della sua ultima funzione, l'affetto dei presenti che non si sono risparmiati in applausi, abbracci e lacrime. E, così, anche lui con la voce rotta dal pianto, Mons. Pompili ha speso gli ultimi minuti prima della benedizione per ringraziare e salutare tutti in vista di un altro importante viaggio: quello alla volta di Verona. È nella nostra città, infatti, che il neo Vescovo ha trovato casa dal 1° ottobre: un incarico inatteso eppure gradito, per il quale ha raccolto il testimone di Mons. Giuseppe Zenti, ritiratosi dall'incarico per sopraggiunti limiti di età. Al nuovo "pastore" di Verona, ora, l'onore e l'onere di guidare una comunità complessa, ricca di storia e di cultura, che tanto ha da dare e tanto vuole ricevere. La priorità, quindi, secondo Mons. Pompili? «Entrare in contatto con le persone, stabilire una possibilità di ascolto reciproco». E a Verona, forse, si inizia a respirare un'aria nuova.

Mons. Pompili lei è stato ordinato presbitero nel 1988. Ha sempre saputo che quella della Chiesa era la sua strada?

Ricordo che da bambino, come chierichetto, mi sono lasciato incantare dalla bellezza della liturgia, dello stare insieme a pregare. Il mio parroco era già anziano, ma aveva una notevole capacità di attrarre verso le cose dello spirito. Ho deciso sin da ragazzo, in prima media, di entrare in seminario. Lì, durante gli anni, c’è stata una lunga maturazione, in particolare grazie ad un’altra figura che per me è stata importante: quella del padre spirituale, un gesuita che ci ha fatto scoprire il contatto con la Parola. Grazie a lui ho compreso che la Parola non è un testo inerte, ma un verbo vivo attraverso il quale si riesce a interpretare quello che viviamo. Questo percorso mi ha aiutato a leggermi dentro quando, dopo la maturità classica, ho dovuto capire cosa fare da grande. E ho pensato che essere prete fosse un modo per riuscire utile agli altri, senza disperdere le intuizioni che avevo avuto.

Lei viene da Rieti, dove è stato nominato Vescovo nel 2015, ed è stata una figura molto importante per la comunità. Cosa si porta dietro da questi ultimi sette anni, in cui sono successe molte cose, tra cui il terremoto di Amatrice?

Senza dubbio mi sono dovuto confrontare con situazioni difficili e inaspettate. Porterò con me tutte queste esperienze, ma non sono la cosa che conta di più. A restare con me saranno soprattutto le relazioni costruite toccando con mano le vite delle persone, nei momenti difficili come durante il terremoto e la pandemia, ma anche nelle occasioni di festa. Dal 2015 a oggi, la mia vita si è arricchita di volti, storie, conoscenze e amicizie che non verranno meno.

È stato difficile lasciare la sua terra? Tutta la comunità si è commossa per il suo addio… E quando ha saputo della sua nomina a Vescovo di Verona, che cosa ha provato?

Nelle occasioni di saluto anch’io mi sono sempre sono commosso. Pur avendone percezione, confesso di non aver misurato fino in fondo la stima da cui sono stato circondato prima di dover annunciare il mio trasferimento. Una valanga di affetto che ricambio con tutto il cuore, ma che ha senz’altro reso più lacerante il momento del distacco. Anche quando mi è stata comunicata la decisione di Papa Francesco di affidarmi la cura della Chiesa di Verona ho vissuto sentimenti contrastanti. Da un lato la gratitudine per l’incarico, dall’altro il timore verso una situazione diversa e nuova. E poi il pensiero è andato ai tanti progetti avviati nella diocesi di Rieti che mi sarebbe piaciuto portare a termine. Ma il vescovo, come ogni prete, non sceglie dove stare, viene inviato obbedendo a un disegno che ha ragioni sue proprie. E come io ho potuto portare a termine i progetti avviati da chi mi ha preceduto a Rieti, chi verrà dopo di me completerà le cose che restano incompiute alla mia partenza. Proprio come a Verona sono chiamato a raccogliere l’eredità pastorale di Mons. Zenti, che ringrazio per tutte le cose buone che ha seminato.

Era mai stato a Verona prima della sua nomina? Ha già un suo “luogo del cuore” in città o deve ancora guardarsi intorno?

Sì, ero già stato a Verona, in particolare per il Convegno ecclesiale del 2006 e poi in un’altra occasione, per un incontro con gli insegnanti di religione nel 2013, ma non la conosco bene. In queste settimane ho avuto modo di documentarmi sui luoghi e la storia, soprattutto grazie a Internet, ma non è ovviamente abbastanza per eleggere un “luogo del cuore”. Anche perché di solito questi non dipendono dalla bellezza dell’architettura e del paesaggio, ma dagli incontri che consentono. Sono sicuro che nel tempo i luoghi del cuore si moltiplicheranno.

Che cosa si aspetta dalla comunità veronese che le ha lasciato Mons. Zenti?

So che è una comunità molto ricca di esperienze che mi impegno a conoscere attraverso una indispensabile fase di ascolto. Strada facendo, individueremo insieme gli obiettivi. Mi pare che oggi siamo tutti un po’ stanchi dei programmi, che sono utili ma non cambiano le persone e le situazioni. Come ci insegna Papa Francesco con il suo modo di essere, la gioia del Vangelo è ciò che deve tornare a riscaldare di nuovo i cuori. È ciò che insieme dovremmo imparare a riscoprire. Ma questo non è un programma, è una esperienza. La priorità è cercare di entrare in contatto con le persone, stabilire una possibilità di ascolto reciproco e ravvicinato, a partire da ciò che ci accomuna: la comune esperienza del Vangelo, che rimane sempre l’unico riferimento decisivo.

In passato si è parlato molto di Chiesa e politica. Secondo lei sono due entità che devono restare separate oppure crede che ci possa essere una contaminazione positiva?

La Chiesa non è separata dalla società, ma abita il mondo degli uomini. Le persone non possono certo essere scisse, tenendo separate le aspirazioni spirituali dalle convinzioni politiche. Certamente il credente agisce in modo positivo nella società permeando la vita pubblica con la testimonianza della propria fede. Un uomo saggio ha detto con ragione che la politica è la più alta forma di carità. Voleva dire che intesa in modo autentico, la politica consiste dell’occuparsi del prossimo e della comunità. È mettere le proprie competenze e il proprio tempo al servizio di tutti. Alcuni equivoci, peraltro, sono oggi anacronistici: ci sono credenti e non credenti in ogni area politica, la realtà del “partito dei cattolici” sembra ormai superata. Occorre piuttosto tenere aperto il dialogo, essere capaci di mediare le contraddizioni puntando al bene comune.

Questi ultimi anni, tra la pandemia prima e la guerra poi, hanno messo a dura prova le persone. Si respira tanto sconforto e scoraggiamento. Che ruolo può avere la Chiesa in questa situazione?

Durante i periodi più duri di questi anni, la Chiesa è sempre stata in prima linea a partire dalla dimensione materiale. Penso alla forza straordinaria della Caritas e alla miriade di iniziative poste in essere dalle diocesi italiane per accompagnare le fasce di popolazione maggiormente provate dalle crisi che si sono succedute. Ma la vera speranza non viene tanto dalla Chiesa come organizzazione, ma dalla testimonianza delle donne e degli uomini che la animano, che sono sempre pronti a tendere la mano, ad accogliere con un sorriso, testimoniando quella speranza che è il solo antidoto allo scoramento serpeggiante. A consolidare il pessimismo è la convinzione di non poter opporre nulla al male, la forza della Chiesa è mostrare che si può sempre migliorare qualcosa, perché siamo tutti chiamati a una dimensione che ci supera e ci salva dai nostri limiti. È questa esperienza che scalda i cuori, perché trova la forza nel comune riferimento del Vangelo.

Sul fronte dei più giovani, invece, ci sono sempre più ragazzi e ragazze che si allontanano dalla Chiesa. Come può quest'ultima riavvicinarsi a loro e comunicare con “la loro lingua”?

Bisogna essere disposti a fare il percorso necessario ad imparare qualunque lingua, quello dell’ascolto. Il bambino impara a parlare ascoltando la voce di sua madre, e chi studia una lingua straniera non può limitarsi ai libri e alla grammatica, deve ascoltare voci vive e il meglio lo trae passando un periodo all’estero. Allo stesso modo la Chiesa non può capire la lingua dei giovani e parlare con loro se non decide di abitare in mezzo a loro. Se ne trarrebbe, peraltro, un reciproco vantaggio. I giovani hanno il fiuto di ciò che sta accadendo di nuovo, ma sono anche i più esposti ai disastri che il nuovo provoca quando ancora non è compreso. E allora da un lato i giovani potrebbero aiutare la Chiesa a capire l’aria che tira, dall’altro la Chiesa potrebbe insegnare loro qualcosa di affidabile sulla base dell’esperienza.

Mons. Pompili, lei ha qualche hobby?

Mi piace molto camminare: è un’attività semplice che quieta i pensieri e fa bene al corpo, ed è anche un antidoto poco appariscente, ma efficace, contro i ritmi frenetici della vita di oggi. Quando ho bisogno di una pausa, quando sento di dover guadagnare un po’ di distanza dalle cose per osservarle meglio, quando devo guardarmi dentro, l’attività che mi viene più naturale è camminare.

Che cosa vuole augurare alla nostra (e, ora, alla sua) città?

Di condividere tutti gli sforzi indirizzati al bene comune, di essere capace di coltivare le differenze senza perdere di vista la fraternità, di saper trasformare in meglio la realtà anteponendo al proprio bene quello di tutti. Un augurio che rivolgo non solo i credenti, ma tutte le donne e gli uomini di buona volontà.

 

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