Cultura e spettacoli | 17 ottobre 2017, 15:38

Attentato ad Ankara, intervista al fotografo dell'Associated Press

Attentato ad Ankara, intervista al fotografo dell'Associated Press

Un idealista del giornalismo, Burhan Ozbilici, il fotografo turco che al momento dell'assassinio dell'ambasciatore russo Andrei Karlov, lo scorso 19 dicembre 2016 ad Ankara, non è indietreggiato, di fronte ad un uomo armato. Davanti agli occhi, con la paura nel cuore, gli sono passati solo gli insegnamenti del padre. Lo abbiamo incontrato alla Libreria Gulliver, ospite in città per qualche giorno

 

Scelte improvvise, scatti fulminei, il sangue freddo nelle vene. Si trovava nel mezzo di uno scontro ad armi impari, Burhan, lui con in mano una macchina fotografica, di fronte un uomo, un ventiduenne pieno di paura e di furia, per quello che aveva fatto e per quello che sarebbe stato di lui, in quella manciata di minuti.

Mevlut Mert Altintas alza una pistola in aria, sa che morirà di lì a poco, mentre tutti i presenti in sala vengono fatti sgomberare all’esterno della struttura. All’interno, a terra, l’ambasciatore russo Andrei Karlov. Ucciso nel mezzo di un discorso durante la presentazione sull’esposizione d’arte “Russia through Turk’s eyes”.

«Andrei mi sembrava gentile, un brav’uomo», racconta il fotografo che in quel momento gli stava di fronte, a pochi passi. A stroncare la sua vita ci si è messa una motivazione ancora contesa tra le parti, forse una vendetta per un massiccio raid aereo russo sulla città siriana di Aleppo. In molti, tuttavia, ci hanno visto un parallelismo con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, causa scatenante la Prima Guerra Mondiale.

Per Burhan Ozbilici è tutta un’altra cosa. «Bum bum bum», di questa vicenda ricorda solo questi suoni graffiati e nitidi. Risponde al fuoco, flemmatico, con la foto “Assassination in Turkey” e ci vince anche il World Press Photo 2017.

La mente indietreggia al 1915, Guerra dei Dardanelli. L’eroe nazionale turco, e successivamente primo Presidente, Mustafa Kemal, assieme al padre di Burhan, si rivolge ai suoi soldati di fronte ad una sconfitta certa: «come vostro comandante, non vi chiedo di fare la guerra, vi chiedo di morire. Morirono quasi tutti. Ma la storia ci dice che riuscirono ad arrestare le forze britanniche».

Questo coraggio è lo stesso che fermò il momento quel 19 dicembre 2016 ad Ankara e gli diede la forza di restare calmo. «Tutto quello che crediamo impossibile è veramente impossibile? Mio padre, il mio eroe, mi ha dimostrato che con il coraggio si possono fare cose straordinarie». E per il fotografo dell’Associated Press l’atto coraggioso, la foto che poi ha fatto il giro del mondo, non dev’essere considerato gesto eroico.

In poche ore, solo sul sito dell'Associated Press, in 18 milioni guardano la fotografia che ritrae l’attentatore turco Mevlut Mert Altintas con alle spalle Andrei Karlov, steso a terra. Fiero delle sue azioni, Burhan cerca l’umiltà di dire che ha fatto solo il suo lavoro. «I giornalisti possono sensibilizzare la gente, portare la solidarietà tra gli esseri umani mostrando le crudeltà del nostro mondo».

Scrive fin da quando è giovane, ma devia sul fotoreportage con la Guerra del Golfo del 1990. «Se scegliamo le parole giuste, o le foto giuste, possiamo fare grandi cose». Tra queste foto giuste ce n’è una che svetta sulle altre, e non è certo quella dell’attentato ad Ankara. Ci catapulta nel mezzo del recente esodo dei rifugiati siriani «Ho visto un uomo arrivare alla frontiera tra Siria e Turchia, non aveva niente con sé. Mi ha fatto piangere, perché tra le mani aveva solo un gatto».

Certo, Burhan ha un debole per i gatti, al punto che mentre parliamo, l’unico affetto che gli manca è quello della sua piccola felina.

Burhan molla la macchina fotografica solo quando c’è qualcosa di più importante da fare; per esempio quando i rifugiati iracheni fuggivano dal regime di Saddam Hussein e cercavano riparo in Turchia. È allora che Burhan prende sulle spalle i bambini affaticati e li aiuta ad avanzare.

«Mai corrompere testa e cuore», il consiglio più grande che ci lascia il fotografo, icona di questi anni tormentati. Perché «per essere veramente felici bisogna essere onesti».