Cultura e spettacoli | 01 ottobre 2015, 11:40

Grande Guerra: quando la propaganda passava attraverso l’infanzia

Grande Guerra: quando la propaganda passava attraverso l’infanzia

Formare all'odio, insegnare un amore cieco verso la patria. L'abbecedario conservato nel Museo Fioroni di Legnago, ci racconta della pedagogia ai tempi della guerra quando il mondo dell'infanzia era l'oggetto prediletto per veicolare la propaganda di guerra.

A come Aquila bifronte. «Animale di rapina, gronda sangue dal becco e dalle grinfie – ha due teste che servono poco. Invecchiando ha perduto molte penne – perderà un giorno gli artigli. E si vivrà tranquilli». M come Morte. «Trofeo moderno di vittoria». P come Pace. «Signora di buona famiglia ma disgraziata … in amore. Un tempo corteggiata, esaltata, ora passa giorni penosi in attesa di adempiere al suo mandato».

Un abbecedario per bambini? Sorprendente, ma vero. Certo non il solito, ricco com’è di illustrazioni goffe, talvolta raccapriccianti, di parole piene di sarcasmo, parole offensive. Verso chi? I nostri nemici.

Siamo nel 1915. In piena guerra. Il noto illustratore Golia (pseudonimo di Eugenio Colmo) si rivolge ai bambini attingendo a quella che è la realtà di allora. Nessuna finzione, dunque. I giovani devono sapere, conoscere, partecipare. Questo dopotutto è ciò che vuole lo stato, che ora più che mai ha bisogno del sostegno dei suoi cittadini. Cartoline, manifesti, giornali, libri sollecitano le persone al risparmio, al prestito nazionale… E l’immagine dei bambini è sempre presente. «Il bambino diventa ingrediente insostituibile nella costruzione del discorso ideologico e del percorso iconografico della cartolina illustrata». Sulla loro innocenza si fa leva per sensibilizzare. Per convincere la gente, la massa, il popolo. Un popolo bambino: considerato e trattato come «un minore da educare, conquistare, sedurre, per trasformarlo in un punto di forza della nazione in competizione e in conflitto». Perché la nazione è «un prodotto culturale, non un dato fisico o biologico». E dopotutto «patrioti si diventa». Perché «si diventa cittadini, membri di una comunità, grazie a un processo di individuazione, cioè di costruzione del senso, che prelude ogni costruzione di un consenso, e che passa attraverso luoghi, linguaggi, codici, riti, costumi del vivere associato».

Da dove partire allora, se non dalla base, dai giovani. Anzi, giovanissimi. Dalla loro nazionalizzazione, appunto. Per creare quel sentimento di solidarietà e di sostegno ai soldati e, non meno importante, di unificazione nazionale nel segno dell’italianità. Proprio in un’Italia che era entrata in guerra tra polemiche e opposizioni. In un’Italia in cui il patriottismo coinvolgeva solo una cerchia ristretta di persone, della borghesia e dell’aristocrazia, senza raggiungere proprio coloro che formavano la maggioranza dell’esercito italiano.

Furono quindi i 12 milioni di giovani sotto i 14 anni a essere coinvolti, anzitutto come strumento di comunicazione. Perché attraverso il bambino si raggiungono gli adulti, le famiglie. Perché l’eroismo non ha età: perfino i poppanti possono fare la loro parte, anche senza saperlo. Perché il bambino rappresenta la vita, controbilanciando la morte sempre più dilagante. Perché l’immagine dei pargoli ha una valenza pubblicitaria rilevante: chiedono, reclamano, e bisogna accontentarli.

Ma i bambini sono anche i destinatari del messaggio patriottico: essi rappresentano il futuro. Lavorando su di loro si creano i presupposti per il futuro nel segno della nazione, della patria e ora della guerra.

Già dagli inizi del Novecento si era compresa la valenza delle giovani generazioni, che facevano il loro ingresso nella società, ora divenuta di massa, con esigenze, richieste, aspettative, sogni. Erano loro i nuovi interlocutori, anzitutto delle industrie. E poi della comunicazione. Un bacino che faceva creare profitto a molte ditte. E creava le speranze di crescita per lo stato.

Con la guerra di Libia poi l’Italia aveva avuto finalmente l’occasione di affermare l’idea che «l’esercito e la guerra erano il supremo coronamento dell’educazione civica e nazionale» dei bambini e dei ragazzi. Il soldato divenne il loro simbolo e modello, soprattutto ora che poteva raccontare e testimoniare in prima persona le avventure vissute nelle terre africane. Terre remote che stimolavano l’immaginario giovanile, suscitando grande eccitazione.

L’Abbecedario, oggi conservato al Museo Fioroni di Legnago, era quindi uno dei tanti strumenti utili a veicolare un messaggio ben preciso verso l’infanzia. «Il processo di alfabetizzazione traeva alimento dalla guerra (…) nuovo codice universale del mondo moderno».

Così, quando il 24 maggio di cento anni fa l’Italia dichiarava guerra all’Austria, molti dei nostri giovani erano già pronti ad affrontare quella che per loro era un’avventura. Ma che di fatto si sarebbe rivelata altra cosa. Una vera tragedia di massa.