Cultura e spettacoli | 13 luglio 2013, 17:51

Il viaggio, metafora di vita

Il viaggio, metafora di vita

Qualcuno sostiene che il viaggio è metafora di vita,

percorso di crescita culturale e di aperture mentali e intellettive. Un trip di

emozioni, sensazioni ed esperienze che stimolano ed esaltano. Ognuno sceglie

per sé il proprio viaggio, in parte perfetto e comodo, che si avvicina o

discosta completamente dall’immagine patinata di copertine che rimandano a

luoghi esotici da favola.

Viaggiare, visitare e fotografare o vagabondare, conoscere e

toccare? Attraverso gli occhi e l’esperienza di Giovanni Cobianchi, viaggiatore

vagabondo e fotografo affermato, cerchiamo di capire cosa spinge tanti giovani

ad affrontare nuove avventure ed esperienze forti ai “confini del mondo” per

ridefinire nuovamente la parola “viaggio”.

Nicaragua, Colombia, Perù, Bolivia, Panama, Mexico,

Guatemala, Belize, Honduras e ancora Kosovo, Albania, Serbia, Romania, Bulgaria,

Turkye, Iran, Iraq, Marocco, Kenya e tutta l’Europa: è questo l’elenco dei

Paesi da te visitati nel corso degli anni. Da dove nasce tutta questa passione

e cosa significa per te la parola “viaggio”?

Viaggio non vuole dire solo spostarsi: il viaggio è e deve

essere una scelta complessa, profonda e ricca. Un’esperienza piena di contenuti

ed emozioni. Viaggiare è conoscere, comprendere assaporare e capire, entrare in

contatto con tradizioni, con vissuti, colori e profumi. La mia storia nasce in

realtà da un viaggio parecchio scontato, un pacchetto “all inclusive” in

Brasile dopo il diploma, ma è da lì che tutto ha inizio. È da questa prima

avventura che ne sono seguite altre, alternate da studio e lavoro: la mia

laurea in Scienze dei Beni Culturali e vari corsi di fotografia. Ma la vera

esperienza si fa sul campo ed io l’ho fatta nei miei viaggi, grazie ai quali

ricerco e trovo sempre qualcosa.

Che cosa intendi?

Una delle esperienze che più mi porto nel cuore è il periodo

vissuto in Albania. Partito tramite un’associazione per eseguire un

monitoraggio sulla situazione in Kosovo all’indomani dell’indipendenza, mi sono

ritrovato a viaggiare verso l’Albania, affascinato dalle bellezze rurali di

quella terra. Per quattro mesi ho vissuto in un convento a Shkodër, per poi

ritrovarmi a mungere vacche e lavorare le terre di un contadino albanese in

piccolo villaggio dell’entroterra. Questa esperienza ha permesso di farmi

trovare ciò che cercavo in quel viaggio: conoscere le tante sfaccettature del

popolo albanese, diverso, ma fatto di gente semplice e genuina e con

un’ospitalità che non dimenticherò mai. È però grazie a questa, ed a tante

altre esperienze, che ho capito il segreto del viaggio: viaggiare è conoscere

ma per farlo bisogna capire il suo popolo attraverso gli occhi della gente,

entrando nelle loro case. Vivendogli accanto si arriva alla verità o qualche

indizio.

Hai mai avuto paura?

No. Il mio percorso è stato graduale e non mi sono mai

spinto oltre i miei limiti. Quando viaggi non devi dimostrare nulla a nessuno

se non: ascoltare te stesso e imparare a conoscerti. Gradualmente sono

cresciuto, ho imparato a osservare, capire e muovermi non mettendo mai le mie

paure davanti a me stesso. Perché sfidarmi?

Quali sono le cose che non mancano mai nel tuo zaino?

Viaggio sempre leggero, un piccolo zaino, la mia fotocamera,

un pc e una cartina, il resto lo acquisto al momento del bisogno.

La fotografia è una delle tue grandi passioni, oltre ad

essere fonte di sostentamento?

Sì, e grazie alle foto riesco a testimoniare ciò che altri

fanno scrivendo. L’obiettivo cattura storie non dette, attimi di vita, volti di

gioia e sofferenza. Grazie alle mie foto riesco a guadagnare qualcosa e questo

è un male. Ho collaborato con la rivista Goods, e il magazine sicurezza, geopolitica

e intelligence Theorema, con l’inserto mensile del quotidiano Libero V&V e

per alcuni famosi web site italiani e stranieri.

Prima di salutarci non puoi non raccontarci del tuo prossimo

viaggio?

Sto mettendo in piedi un progetto che mi sta particolarmente

a cuore e sono certo realizzerò. In quest’ultimo anno passato in Italia ho

avuto un’esperienza di collaborazione con “l’Istituto Don Calabria”, per il

quale m’interfacciavo come educatore culturale con genitori di figli immigrati.

Qui, fra i tanti ragazzi incontrati, ho avuto modo di conoscerne alcuni

arrivati in Italia soli e per “caso”. Partiti dall’Africa centrale all’età di

dodici anni si sono incamminati verso la Libia alla ricerca di un lavoro, una

vita, un sostentamento. Qui, come racconta la storia, chi più chi meno la

conosciamo tutti, sono stati costretti a spingersi a Tripoli e imbarcarsi su

navi fatiscenti per iniziare il loro viaggio della speranza. Voglio

ripercorrere, a ritroso, quelle stesse strade vie e sentieri percorsi da loro.

Dodicenni che per tre anni vagano nel mondo abbandonati a loro stessi. Partirò

da Lampedusa arrivando a Tripoli e da lì mi spingerò fino a Dakar, in Senegal,

passando per il Niger, Burkina Faso per andare alla ricerca delle loro famiglie

e alla scoperta della loro terra.