Cultura e spettacoli | 31 marzo 2022, 16:39

Jana Karšaiovà, veronese di adozione, è tra i dodici finalisti del Premio Strega

Jana Karšaiovà, veronese di adozione, è tra i dodici finalisti del Premio Strega

Jana Karšaiová, nata a Bratislava, dopo aver vissuto a Praga e Ostia, ha scelto Verona, dove ha studiato e dove oggi lavora nel teatro, come città da chiamare “casa”. Al debutto nel mondo della narrativa con “Divorzio di velluto”, uscito lo scorso 12 febbraio e già presentato da Gad Lerner al Premio Strega, ha scelto l’italiano, imparato da autodidatta, per raccontare, allo stesso tempo, di uno sradicamento e di una rinascita. Protagonista del romanzo è Katarína, che torna da Praga a Bratislava per trascorrere il Natale insieme ai suoi cari e che, oltre alle incomprensioni con la famiglia, ritrova le vecchie amiche. Tra i ricordi emergono frammenti della vita a Bratislava sotto il governo comunista cecoslovacco e di quel divorzio di velluto che portò alla separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca.

Una storia di assenze che pesano, di tradimenti, di strappi che chiedono nuove risorse per essere ricomposti. Temi che Karšaiová conosce bene, lei che ha abbandonato la Slovacchia, dove rimangono salde le sue radici, ma che ha anche capito come trovarsi di nuovo.

Jana, partiamo dal principio. Cosa l’ha portata a Verona?

Una storia molto banale, in verità. Mio marito, che ho conosciuto in Slovacchia, è pugliese. Quando abbiamo deciso di lasciare Bratislava abbiamo cercato una città che non fosse troppo distante né dalla Puglia né dalla Slovacchia. Verona è esattamente a metà, distante 800 km da Bari e Bratislava.

Avevo fantasticato su varie motivazioni, ma a questa non avevo pensato.

Ci siamo anche detti che la città dell’amore non poteva che portare bene.

Lei nasce nel mondo del teatro, in cui lavora tuttora. Come si è avvicinata, invece, alla scrittura?

La scrittura è stata un po’ una sorpresa, perché pensavo di avere trovato nel teatro il modo con cui esprimersi creativamente. Durante le mie gravidanze, molto ravvicinate l’una all’altra, ho dovuto prendermi una pausa da questo mondo. Per caso ho scoperto un’altra arte.

Come ha iniziato?

Ho iniziato a scrivere per me stessa, senza particolari ambizioni. L’ho fatto per tanti anni, anche dopo aver ripreso le mie attività in teatro.

La scrittura ha messo radici, in sostanza.

Esatto. Piano piano si sono sviluppate e io sentivo sempre più il bisogno di dar loro una voce o uno spazio dedicato. Ho iniziato a scrivere piccoli racconti, sperimentando tra l’italiano e lo slovacco, chiedendomi se fosse giusto scrivere nella mia lingua “adottiva”. Un conto era farlo per me, ma fare narrativa non nella mia lingua madre mi sembrava strano.

Che risposta si è data?

Mi sono detta che era stato l'italiano a portarmi alla scrittura narrativa. Anche se mi sembra

meno logico, le storie mi arrivano in italiano, è l’italiano la lingua in cui esprimo meglio la mia scrittura. E chi sono io per decidere su come devono andare le cose.

Mi sta dicendo che l’italiano le ha fatto un regalo, in sostanza.

Mi sembra davvero un dono, sì, e a questa lingua sono grata. Scrivere in italiano mi ha aiutato a capire da dove provengo e chi sono. Questa consapevolezza ho cercato di prestarla alle mie protagoniste.

Il tema delle radici è centrale nel romanzo. Gli strappi che racconta sono anche i suoi?

Assolutamente. Per come vivo la scrittura non poteva che essere così, non potevo mettere qualcosa che non fosse mio. Certo non è la storia della mia vita, ma gli strappi e le separazioni che racconto sono quelli che conosco in prima persona.

Anche le città coinvolte sono quelle che hanno segnato il suo percorso. I suoi spostamenti sono stati divorzi?

Direi piuttosto arricchimenti. Ogni città in cui ho vissuto mi ha donato qualcosa e quando vado via non lo vivo mai come una separazione. L’unica separazione che vivo è quella da Bratislava, perché la sento come una scelta definitiva. 

Una scelta che fa male?

Meno di quanto ne faceva anni fa, per questo ora posso scriverne. Ho capito che non è la presenza fisica in una città a definire le proprie radici, ma il fatto che questo viva dentro di me. Oggi mi sento a casa dove sono.

Verona è presente anche nel suo romanzo. Cosa le ha dato questa città?

Mi ha dato molto: la possibilità di tornare a fare teatro, tantissime amicizie e colleghi. Sicuramente mi ha dato casa.

Nel romanzo cita autori che hanno fatto la storia della letteratura italiana, come Pavese o Ginzburg. Quanto è stato importante questo patrimonio per la sua scrittura?

Tantissimo. Quando ho iniziato a studiare a Verona, il primo esame che ho dato è stato Letteratura italiana. Non conoscevo nulla, avevo solo le nozioni che si possono apprendere in un liceo slovacco, in pratica solo i nomi di Dante e Boccaccio.

Com’è andata?

Ho studiato per mesi, era tutto nuovissimo, ma affascinante. Leggevo e mi innamoravo sempre di più, come se mi avessero aperto un tesoro davanti agli occhi.

Se dovesse citare un autore che ha segnato la sua strada?

Natalia Ginzburg. Non solo Lessico famigliare, anche i testi meno conosciuti. Per me è stato importante il romanzo “Caro Michele”.