Cultura e spettacoli | 01 ottobre 2015, 11:30

L’attesa di una lettera

L’attesa di una lettera

La raccolta “Ta-pum” di Lucia Beltrame è un viaggio tra le righe dolorose delle missive dal fronte. In sei anni di lavoro la poetessa veronese ha raccolto oltre ottocento lettere delle famiglie del suo paese nella Bassa Veronese. L'abbiamo incontrata per farci raccontare le cronache intime, le confessioni e i pianti dei nostri soldati al fronte.

Una lettera. Quale fascino, in un’epoca virtuale! Frammenti di carta, scritti con penna e calamaio. Faticosamente, da chi era poco abituato alla scrittura. Ma di una semplicità che senza giri di parole lascia fluire sentimenti profondi, veri, autentici. Intrisi di «angoscia, di paura dal sapore di piombo, di disagio» per la vita in trincea. «I morsi della fame, la sofferenza della sera e della malattia, la lontananza da casa, il desiderio struggente di una breve licenza che poi non viene firmata, un bisogno estremo di rivedere i propri cari, la moglie, soprattutto i figli piccoli, i genitori, la morosa, la voglia di tenerezza velata da un delicato pudore, infine desideri e speranze di porre termine a quella terribile esperienza, invocando la pace agognata da tutti». Tutto questo emerge tra le righe di quelle lettere inviate dai soldati al fronte alla propria famiglia. Che era in attesa – un’attesa struggente – di notizie.

Lucia Beltrame Menini ha lasciato un documento importante e insostituibile alla storia. Una raccolta di preziose lettere, più di ottocento, costato il lavoro di quasi sei anni. «Un giorno nella casa in campagna dei miei nonni, mentre cercavo un tavolo in soffitta, con mio fratello, trovai una cassetta piena di lettere della Prima e Seconda Guerra mondiale», custodite ordinatamente dalla zia. «La portammo via con gran fatica da quanto pesava!».

Da qui, da Via Larga 14 di S. Pietro di Morubio, ha avuto inizio l’interesse per la corrispondenza dal fronte, che attraverso un passaparola ha portato Lucia a raccogliere centinaia di lettere dalle famiglie di tutto il paese, compresa la frazione di Bonavicina.

Un’occasione in più per raccontare la sua terra. Come ha iniziato a fare scrivendo poesie, subito dopo il pensionamento. «Ho lavorato tanti anni presso la Telefonia di Stato, per la quale mi sono trasferita a Verona insieme a mio marito». Poi, il tempo le ha consentito di dedicarsi alla sua vera indole: la scrittura, la poesia. Il dialetto è la sua lingua. Tanto da diventare anche giornalista pubblicista con la rivista «Quatro ciacoe».

Con il lavoro «Ta-pum» si è calata nella parte di «corrispondente di guerra», come si definisce lei stessa. «Questi soldati li ho amati tutti. Difficile non soffrire con loro». In generale dalla corrispondenza non emerge un giudizio sulla guerra, a causa anzitutto della censura. Si percepisce comunque la rassegnazione dei soldati. «Partivano inconsapevoli, per poi rassegnarsi al loro destino». Inoltre, le lettere erano spesso standardizzate nel linguaggio, rassicuranti, quando rivolte ai genitori.

E cosa dire di quell’attesa, spesso logorante, ma paziente, alla quale oggi non saremmo più capaci. Oggi che il tempo scorre veloce, ci sfugge. «Per la seconda volta mando alla sua persona un misero mio scritto» scriveva Amabile Guerra nel dicembre del 1915 ad Antonio Tognella, «per sapere notizie precise dell’amato mio Sposo suo compagno. Da giorni e giorni lo piango perduto, già in braccio mi sono data alla disperazione per una perdita sì tanto amata» (il marito Carli Primo Tullio era già morto il 23 novembre 1915 sul Medio Isonzo).

L’attesa di allora durava giorni, settimane, mesi. Anche per chi si trovava al fronte. «Quando si era in guerra erano certamente tante le situazioni che davano forti emozioni, ma il momento che arrivava in linea il furiere con la posta era il più atteso» (Mario Rigoni Stern). Così Angelo Giarola scriveva: «io viò spedito 9 cartoline e 7 lettere, manio non o ricevuto nesuna notizia, da Voi». Perché, in una situazione drammatica, dove gravavano su ogni soldato «i patimenti sofferti di freddo sonno e stanchezza» e dove «si lavorava peggio delle bestie» (Alberto Pasini), dopotutto «scrivendo mi passa piu presto i giorni di male inconia (malinconia), come pure chredo che sia ancora di Voi altri tutti» (Vittorio Gobetti).

Una lettera. Quale fascino? Oppure l’opportunità di provare a percepire, anche solo intuire, la sofferenza di milioni di persone. Un dolore, che per molti si è trasformato in un lutto, difficile da accettare e da superare.

Con questa pubblicazione Lucia ha voluto lasciare un ricordo da trasmettere alle giovani generazioni, «perché abbiano misura del caro prezzo pagato per l’attuale libertà». Soprattutto oggi che la trasmissione della memoria ha rotto quel filo rosso che legava i nostri genitori e nonni alla storia della nostra terra.