Cultura e spettacoli | 30 novembre 2015, 11:20

Migranti, quei viaggiatori impossibili

Tra i mille appuntamenti del Festival del Cinema Africano, dal 6 al 15 novembre, noi ne abbiamo scelto uno. E tra i tanti registi  abbiamo intervistato Andrea Segre, che nella sezione 'Viaggiatori e Migranti', ha presentato il suo Come il peso dell'acqua(2014). Abbiamo parlato con lui, da anni impegnato nella narrazione di margini, di chi, quei margini prova a scavalcare.

In quest'Europa di fortezze, che cerca solo di fermare, contenere e di «ridurre gli sbarchi», Andrea Segre, 38 anni, ha scelto di camminare, a piedi nudi. E ha finito col far camminare anche gli altri senza scarpe. Alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, l'11 settembre scorso, in piena kermesse, ha coinvolto, in quella che è stata una vera è propria marcia solidale, i grandi nomi del cinema italiano da Valerio Mastrandea a Elio Germano passando per Toni Servillo e Jasmine Trinca «per stare, insieme, dalla parte degli uomini scalzi».  Oltre 70 città della nostra penisola hanno abbandonato le calzature in nome di un'accoglienza degna e umana e di un sistema unico di asilo europeo, aderendo all'azione lanciata dal regista padovano. Lui “gli uomini scalzi” li conosce per nome. Da dieci anni racconta le loro storie con una serrata produzione artistica di film e documentari sul fenomeno migratorio (A sud di Lampedusa, Come un uomo sulla terra, Mare chiuso), sui fatti di Rosarno (Il sangue verde), ma anche sulla crisi greca (Indebito, con Vinicio Capossela) e sulle relazioni interculturali (Io sono Li e La prima neve). In Come il peso dell'acqua ha raccontato, con l'aiuto e la voce di altri due narratori civili Marco Paolini e Giuseppe Battiston, di tre donne e del loro difficile viaggio dal paese d'origine alle coste italiane. Le storie di Gladys, Nasreen e Semhar sono lo spunto per narrare il ricordo doloroso, ancora incastrato nella memoria della traversata in mare e della vita dopo, una volta arrivati dall'altra parte.

Sono almeno 760mila i migranti in fuga principalmente da Siria, Afghanistan e Iraq che hanno attraversato il Mediterraneo nel 2015. Che cosa potevamo fare e non abbiamo fatto come Europa?

Sono quindici anni che i paesi europei e l'Europa -perché sono due entità distinte con responsabilità distinte- non sanno utilizzare le loro strutture diplomatiche per intercettare e dialogare con i flussi, prima del dramma. Il loro errore è stato quello di lavorare solo nel punto di contatto, nel momento dell'emergenza. Molti oggi pensano che i barconi dei migranti siano strumenti di guerra del gruppo Stato islamico. Ma i barconi non sono stati inventati dall'ISIS, che, anzi, come forza minoritaria tra le fazioni in guerra in Libia, si è inserito nel business, usando, forse, alcuni spazi in un mercato che ha reti e meccanismi esistenti da tempo. Così in questa esasperata guerra, anche di comunicazione, chi ci perde sono sempre gli stessi. Da una parte quelli che vedono mutilata la loro necessità o voglia di viaggiare, dall'altra chi non ha gli strumenti per comprendere e si trova  a soffocare di paura o di compassione, che poi è la stessa cosa.

Cosa può il cinema, quanto può?

Il cinema permette di conoscere le persone. Un film funziona se tu spettatore riesci a entrare in quella storia. Raccontare l'immigrazione attraverso il cinema significa dare volti e nomi ai migranti che spesso sono legati a numeri e luoghi impersonali: campi profughi, centri d'accoglienza, barconi. Il cinema restituisce loro l'identità perduta. Riesce a parlare al singolare ed evita il plurale indefinito delle masse.

L'anno scorso ha ideato Fuori Rotta: un'azione sociale e culturale per riscoprire il “diritto  al viaggio”. Come si viaggia bene?

Rompendo la propria rotta, che è di per sé una fatica. Perché viaggiare in maniera consapevole, ovvero coraggiosa, alla fine c'entra con la civiltà e con la democrazia.

Oggi ci sono viaggiatori che viaggiano per distrazione, per distrarsi; è la conseguenza di un sistema di omologazione che schiaccia i diritti ma anche i desideri. E poi ci sono loro: i viaggiatori impossibili. Quelli a cui non riconosciamo nome, cognome e speranza.