Cultura e spettacoli | 25 novembre 2020, 16:10

Una nuova donna, erta tra le luci

Una nuova donna, erta tra le luci

È passato qualche mese, un tempo equo per guardare con occhi puliti ciò che è accaduto: la sfilata Dior Cruise a Lecce, in piazza Duomo.

Una piazza vera, un luogo sempre più diverso dalle passerelle, necessariamente all’aperto per condizioni di sicurezza post pandemia, luci, colori, scintillii, abiti, modelle, danza, musica, un palcoscenico diffuso, di quelli che sempre più vediamo fuori dagli spazi preposti alla moda, alla ricerca del nuovo, del sensazionale. Fin qui nulla di straordinario.

E’ nella distanza tra le cose e le persone, nello spazio interstiziale, nel vuoto contrapposto al pieno, nel buio rispetto alla luce che invece è accaduto qualcosa di epocale, di magico, di forte e bello: nello spazio tra una modella e l’altra, tra le modelle e le danzatrici, tra le persone e l’architettura, tra l’architettura e la città, tra la città e lo spirito del luogo ha preso forma una nuova donna. 

Si è fatta strada, ha combattuto, si è ripresa l’abito che le è proprio, strappando stereotipi e pregiudizi, rivisitando archetipi in un contemporaneo femminile, forte, luminoso e cosciente.

Una donna pizzicata dal veleno della creatività, quell’estro che come un colpo di reni, un moto improvviso si trasforma in lampo creativo, sul limite tra sacro e profano si trasforma in rituale coreutico, dove la musica incalza l’esorcismo per cacciare il male e far trionfare il bene, strappare il brutto e indossare il bello. Una donna che non ha paura e non fa paura, è vera, viva, umana, quotidiana e speciale.

Una donna che si muove in uno spazio scenico reale, tra chiesa e piazza, tra religione e vita civile, protagonista consapevole di un rito collettivo: abiti bianchi di cotone o lana, scacciati i tessuti sintetici, solo verità, come lunghe camicie comode e femminili tra “lenzuoli”, spighe di grano e foglie di vite che diventano ricami in una magia, quella del contatto con la natura. 

Una natura coltivata, che ha bisogno di cure per produrre bene, avere cura è amare, perché le donne amano intensamente la terra, dell’amore sono contadine; amare la terra che ci appartiene, essere di questa guerriere, con corpetti come scudi, novelle Minerva o Athena, donne che usano la testa e il cuore, sanno il valore del territorio e della sua gente, di loro stesse.

Un territorio non a caso, quello tra Otranto, Uggiano, Giurdignano fino a lambire il capoluogo Lecce, che è cerchio magico di quel Tarantismo che non si è riuscito a spiegare se malattia improvvisa (per quel morso di ragno) o stato magico psico fisico prevalentemente femminile, espressione di un forte legame con la Terra che ha il rumore del mare nel vento; quella terra che è campagna, dove le donne andavano a lavorare, di cui avevano cura, amore, contadine morse e attraversate da un veleno che ha lasciato traccia nella follia di tutte le altre donne procreatrici di mondi e di bellezza, al di là di paure come pregiudizi. Un mondo di donne forti e fragili, territorio di contrasti accesi, come i colori senza sfumature.

E’ quel ballo della Taranta, tradizione identitaria, moto dell’anima, un dolore da scacciare, un veleno che prende soprattutto le donne “dal sangue amaro” dicevano le anziane, una follia temporanea che diventa “estro”, danza, una musica ripetuta e ripetitiva che sa di rito, di sacro e profano, di festa con le luminarie e le noccioline, di intime urla e gesti indemoniati. Di bianco e di colore, di nero, la’ dove c’è sempre il quotidiano a braccetto con lo straordinario, una chiesa e una piazza; un “fenomeno”, lo indicavano negli anni ‘50, circoscritto alla Grecìa salentina, luogo magico anche per quell’arte del ricamo al tombolo e per l’abilità artigiana di tessitrici, donne che hanno cucito abiti e territorio. Tutto ha un sapore selvatico, originario, vero. 

Ti cava l’anima dalla gola.

Bellissimi allora diventano gli abiti della sfilata di Dior in piazza del Duomo a Lecce, di una bellezza che è stato d’animo, percezione di fili invisibili come tela di ragno, perché bellissime sono le donne che li indosseranno, e lo saranno non per l’abito ma per la terra che avranno addosso, per la storia che ognuna avrà tessuto, ricamato su se stessa, una donna che sia consapevole della sua magia, del legame forte con la natura, sempre creatrice, mai sterile, né sola. 

Una donna in stato di Grazia.