Editoriali | 09 febbraio 2018, 09:57

Editoriale 87 | Febbraio 2018

Editoriale 87 | Febbraio 2018

Qualche giorno fa mi sono commosso davanti alla televisione ascoltando la testimonianza composta, ma intensa, della neo senatrice a vita Liliana Segre (nominata dal Presidente Mattarella il 19 gennaio scorso), ospite su Rai Uno nel salotto domenicale di Fabio Fazio, a Che tempo che fa.

Di Matteo Scolari

Nata a Milano nel 1930 da famiglia di origine ebraica, a soli otto anni dovette lasciare la scuola elementare per effetto delle leggi razziali introdotte dal fascismo, nel 1938. Nel 1943, assieme all’amato padre Alberto e a due cugini tentò la via della Svizzera per scampare dai rastrellamenti che in quei mesi si susseguivano sempre con maggior frequenza e violenza. Vennero intercettati, tutti e quattro, dalle guardie del Canton Ticino proprio sul confine e furono arrestati. Prima il carcere di Varese, poi di San Vittore e, il 30 gennaio 1944, il viaggio dal “Binario 21” della stazione di Milano, destinazione Birkenau-Auschwitz. Una settimana in un vagone merci stipato di persone, “piombato” all’esterno, fino all’arrivo nella gelida spianata del più grande campo di concentramento che i nazisti realizzarono per portare a termine la cosiddetta “soluzione finale”. Liliana non rivide mai più il padre, nemmeno i nonni paterni, anche loro deportati e uccisi nel 1944. Rimase a Birkenau fino al 27 gennaio 1945, poi il trasferimento a piedi, forzato e imposto dai tedeschi per sfuggire all’avanzata russa, verso il nord della Polonia, verso i campi di Ravensbrück e poi di Malchow. Il primo maggio di quello stesso anno la liberazione. Liliana Segre tornò a Milano nell'agosto 1945, pesava 32 chilogrammi. Per trent’anni non parlò mai di quello che le capitò, fino al 1990, quando iniziò ad andare nelle scuole, tra gli studenti: «Giovani scegliete sempre la vita, evitate che l’indifferenza abbia il sopravvento» ripete ad ogni fine incontro come lascito testamentario alla nuove generazioni.

A lei, alle persone come lei, ai pochissimi sopravvissuti, testimoni di quella tragedia rimasti ancora al mondo, alle milioni di vittime dell’Olocausto e del conflitto mondiale, è dedicato questo numero speciale di Pantheon. Un numero, ve ne accorgerete, diverso dagli altri, fuori dagli schemi, celebrativo per i dieci anni di attività editoriale. Un numero che richiama alcune parole chiave che ci hanno accompagnato dal 2008 a oggi e che vorremmo ci accompagnassero in futuro, nel nostro mestiere, nella nostra vita, ogni giorno. 

Dal coraggio, che dimostrò proprio la giovane Segre, alle radici che ci legano al nostro territorio. Dalla cura e all’attenzione per noi stessi e per gli altri (che non dovrebbero mai mancare), alla metamorfosi, intesa come cambiamento, trasformazione, tendente al miglioramento personale e all’interno di una comunità.

Per comprendere il significato profondo di queste dieci parole abbiamo chiesto l’aiuto al professor Vittorino Andreoli, che fu tra i primi ad aver dato fiducia al “progetto Pantheon” nel 2009, concedendoci una lucida riflessione sui tempi che stavano cambiando con l’avvento delle nuove tecnologie. Analisi che rivista al giorno d’oggi, assume le caratteristiche di una profezia.

Grazie al professore, dunque. Grazie agli oltre 100 collaboratori dal 2008 a oggi, grazie ai tanti fornitori, grazie alle migliaia di persone intervistate. Grazie, soprattutto, alle centinaia di aziende che hanno scelto e stanno scegliendo il giornale e gli altri strumenti digitali del gruppo Verona Network (che da quest'anno annovera anche la storica Radio Adige) per comunicare ciò che hanno da dire o da raccontare. E perché credono in un progetto di crescita territoriale e di rete, quello che abbiamo presentato lo scorso dicembre in una meravigliosa Villa Arvedi che ci ha ospitato per la grande festa decennale. Grazie, infine, a voi, che siete sempre più numerosi e partecipi. Che avete ancora a cuore i valori più autentici.

 

Colui che è coraggioso è libero. (Seneca)

 

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