| 15 luglio 2020, 11:18

Pavese e le nostre belle estati desiderate

Pavese e le nostre belle estati desiderate

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In breve

Il libro

Ha vinto il Premio Strega con questo romanzo breve (nella trilogia omonima anche Il diavolo sulle colline e Tre donne sole). Era giugno, era il 1950. Neanche due mesi dopo Cesare Pavese, in un agosto aridissimo di città, si sarebbe suicidato.

Titolo: La bella estate

Autore: Cesare Pavese

Edizioni: Einaudi

IL LIBRO.

«Lasciala stare, è una scema» questa frase è il sigillo. La fine dell’infanzia, l’inizio dell’era delle solitudini, insomma, dell’età adulta. Ginia ha sedici anni, arrossisce anche solo ad immaginare la carezza di un uomo sulla coscia, vive con il fratello in una Torino che è conquista per lei, nata in campagna. Conosce l’amica Amelia, conosce Guido che dipinge e le sembra che sia l’incanto dell’amore. Pavese ha descritto questo suo romanzo come «la storia di una verginità che si difende». Oltre ad essere la sinossi universale delle nostre insicurezze è anche, profondamente, il percorso di un dolore, il primo, il più forte e sproporzionato che tutti abbiamo sperimentato e slegati dal quale ancora oggi, a stento, riusciamo a pensarci, di certo a riconoscerci.

L’AUTORE.

Il 22 giugno del 1950 Cesare Pavese era sul treno per Roma, due giorni dopo l’avrebbero incoronato con il Premio Strega per La bella estate (la trilogia che oltre all’omonimo romanzo breve raccoglie anche Il diavolo sulle colline e Tre donne sole). Due mesi dopo si sarebbe ucciso nell’albergo di Torino che per gioco del destino si chiama proprio Hotel Roma. Prima dell’irreparabile, aveva provato a chiamare alcuni amici al telefono. Nessuna risposta. La città era deserta, tutti i suoi affetti erano in vacanza da qualche parte, in quell’agosto aridissimo di città. Le solitudini hanno pesato troppo e non è riuscito ad arrivare alla fine di quell’estate che pure era stata bella, con quel premio dolcissimo, sognato sempre. Come Ginia, anche lui dentro di sé sapeva che «l'estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai».

NOTE A MARGINE.

 «Dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria». Finisce l’innocenza quando ci si accorge che la notte è il luogo dei pensieri, non certo delle feste. Cesare Pavese in questo racconto lungo condensa tutte le nostre adolescenze straziate da un episodio, da una delusione, da un amore corrisposto male o per niente. E a quel primo schiaffo cui non possiamo sottrarci cerchiamo, per il resto della vita, di improvvisare un risarcimento. Passano le estati, gli inverni e ci saranno nuove ferite, ma anche, nello sfacelo privato di ciascuno, si fa strada la speranza piccola e immensa a cui Pavese non è riuscito a credere abbastanza: «quando tutto è perduto, si ritrova noi stessi».

In Breve