Storie di persone | 03 settembre 2021, 16:42

I cinque cerchi prima di tutto

I cinque cerchi prima di tutto

Elisa Molinarolo fin da bambina, come ginnasta, puntava ai cinque cerchi. Da Soave, quando ancora andava alle scuole medie, si trasferì a Padova per allenarsi. Ha cambiato sport, passando al salto con l’asta, ha lavorato duramente e a 27 anni è riuscita a coronare quel sogno. Detentrice del terzo risultato di sempre per un’italiana, Elisa Molinarolo a Tokyo è rimasta fuori per un soffio dalla finale. Con questa intervista ripercorriamo il suo viaggio verso – e dentro – l’olimpiade giapponese.

Da giovanissima eri una promessa della ginnastica, perché il passaggio all’atletica?

Ero troppo alta. Mi sono rivista in una pubblicità con protagonista Yelena Isinbayeva (primatista mondiale dal 2009, ndr): anche lei si vedeva come ginnasta troppo alta e il suo allenatore le propose il salto con l’asta. Quella pubblicità mi è rimasta in testa e mi sono detta «Perché non provare?», anche se i miei genitori avevano fatto molti sacrifici per farmi crescere con la ginnastica. «Tu sei matta» è stata la prima reazione, ma poi mi hanno assecondata anche in questa pazzia.

A Padova ti sei quindi avvicinata al salto con l’asta, con il tuo attuale allenatore Marco Chiarello, arrivando a due titoli italiani assoluti, 2017 e 2021, e uno indoor, nel 2020.

All’inizio è stato un successo dopo l’altro, ma poi sono arrivati anni duri, mi ero bloccata su alcune misure. Potevo sembrare un’atleta già “finita”, deludendo le aspettative. Invece nel 2015 ho superato i 4 metri e il percorso si è sbloccato.

Quando hai capito di poter puntare alle Olimpiadi?

Nella scorsa stagione ho vinto il titolo italiano indoor e sono arrivata seconda ai campionati outdoor, giocandomela per la vittoria fino all’ultimo. Ho ragionato sul fatto di essere arrivata fin lì senza una vera progettualità. «Se provassi a fare le cose fatte bene – mi sono detta – a fare fisioterapia una volta a settimana, farmi seguire da una nutrizionista… Insomma comportarmi da atleta professionista, che non sono, chissà cosa potrebbe uscirne?». Ne è uscito il 4,55 metri dello scorso maggio, terza misura italiana di sempre. E poi l’Olimpiade.

Insomma, hai iniziato a considerarti un’atleta professionista.

Ho provato a esserlo. Non volevo avere il rimpianto di non averci provato. Una sera ho detto al mio allenatore: «Non ho nulla da perdere, proviamoci». E ci siamo riusciti.

Quando hai capito che il sogno delle Olimpiadi di Tokyo si avvicinava, cosa hai provato?

Già da bambina, quando facevo ginnastica, avevo scommesso con mia madre che se fossi andata alle olimpiadi mi avrebbe regalato un tatuaggio con i cinque cerchi. Era il sogno di una vita. Non ho parole per descrivere cosa sentivo in quei momenti.

Ci sono stati anche dei timori? Dei dubbi?

Il sogno ha preso forma lentamente. Poi, vista la situazione Covid, c’era sempre tensione per ogni tampone. Il viaggio lo fai con le lacrime: forse è tutto vero, ti dici. Quando si è aperta la tenda dello stadio ho realizzato di essere davvero alle Olimpiadi. Nessun tampone poteva più fermarmi.

Alle Olimpiadi si va per partecipare o per vincere?

Io arrivavo come penultima del ranking, non avevo nulla da perdere. Lo stadio è enorme, stai gareggiando con le migliori trenta atlete del mondo, ma dopo i primi secondi di paralisi mi sono detta: «Ho le mie carte da giocare». La gara è andata molto bene, anche se l’assenza del mio allenatore si è fatta sentire. Se l’asticella fosse rimasta su ai 4,55 sarei diventata una finalista olimpica. Già con un 20-25° posto sarei stata contenta: arrivare 18^ e prima delle italiane è stata una soddisfazione.

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Com’è il villaggio olimpico?

Sembra di entrare in un mondo parallelo. Fra atleti c’è uno spirito di semplicità, siamo tutti sullo stesso piano. Mi è capitato di cenare vicino a un ragazzo giamaicano, che mangiava con la medaglia d’oro al collo, mentre era in videochiamata con i suoi familiari. Tutto con la massima naturalezza.

Qualche incontro particolare?

Mi sono fatta tre foto. Con il cestista Achille Polonara, che adoro. Poi Federica Pellegrini, mio idolo da sempre. E infine Yelena Isinbayeva, che mi ha ispirato nell’approccio al salto con l’asta.

Com’erano le giornate al villaggio?

I primi due giorni ci siamo allenate, senza spingere troppo. Alla sera abbiamo guardato le gare di Tamberi e Jacobs nel nostro palazzo: eravamo tutti insieme ed è stato bellissimo. Il giorno della gara c’è stata una riunione nella piazzetta sotto a Casa Italia, con i dirigenti della federazione e del Coni, evidentemente soddisfatti per come stavano andando le gare. Sono passati anche Tamberi e Jacobs. Quel giorno ho incontrato anche Vanessa Ferrari, che conosco bene perché gareggiavamo insieme quando facevo ginnastica. Ho un bel rapporto con lei.

E dopo la gara?

Siamo tornate dallo stadio molto tardi, dopo le 23, ma la mensa è aperta 24 ore, quindi siamo andate tranquillamente a cenare. Ci siamo fermate a chiacchierare, e siccome la mensa non chiude mai, siamo finite a mangiare latte e cereali alle 3 di notte. E non eravamo sole! Le giornate successive sono state di relax, avevamo a disposizione ping pong, poltrone massaggianti e anche l’angolo PlayStation.

La domanda immancabile per chi torna da un viaggio: si mangiava bene?

La mensa era una specie di centro commerciale a due piani. C’erano piatti di tutte le cucine del mondo, pasta e pizza, giapponese, asiatica, vegana e vegetariana, halal. E poi verdure, colazioni, tavolate di salse di ogni genere. Abbiamo mangiato bene e con varietà. La pasta solo il giorno della gara, per il resto dovevo approfittarne.

I famosi “letti di cartone”?

Erano comodissimi e ben studiati. Ai lati c’erano degli scomparti dove mettere cellulare, caricabatterie, test Covid. Avevo trovato il mio equilibrio, non sembrava affatto un letto di cartone.

Ora si guarda a Parigi 2024?

Sì, mancano solo tre anni. Però sto facendo due lavori: dalle 9 alle 18 in un’agenzia di marketing, dalle 18.30 vado in campo. È stato un anno duro. In Italia l’unico modo per fare atletica a livello professionistico è essere presi in un gruppo sportivo militare, ma questo non dipende da me. Parigi è vicina e ce la metterò tutta, ma se dovesse arrivare un aiuto non sarebbe male.

Tra l’altro ci sono anche dei costi impegnativi.

Le aste che ho usato per le Olimpiadi mi sono state prestate. Costano 700 euro l’una e a Tokyo ne ho portate undici. Mia sorella ha lanciato l’idea di una raccolta fondi. Ci sono stati gesti di generosità, anche da anonimi, che mi hanno colpito molto. Mi hanno dimostrato che i miei sforzi sono stati apprezzati da molte persone.

A questo link la campagna di raccolta fondi per le nuove aste per Elisa Molinarolo.

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