Storie di persone | 10 gennaio 2020, 08:52

Ronnie Quintarelli: «Cerco sempre la vittoria, che sia una partita a carte o una gara di Super GT»

Ronnie Quintarelli: «Cerco sempre la vittoria, che sia una partita a carte o una gara di Super GT»

Lo abbiamo incontrato in un pomeriggio di metà luglio all’ombra del campanile del suo paese natale, Sant’Anna d’Alfaedo, alla vigilia di un evento che gli amici d’infanzia gli dedicano da sei anni a questa parte: Motori in Piazza. Tra una gara e l’altra del Super GT, il campionato automobilistico di riferimento per il settore motorsport a livello internazionale, Ronnie Quintarelli trova il tempo, almeno una volta all’anno, di tornare a casa, in Italia, in famiglia, su quelle montagne della Lessinia che l’hanno visto partire con un biglietto di sola andata verso il Giappone nel lontano 2003.

Della sua terra, dei suoi affetti e della sua “gente” il

pilota ufficiale della Nissan Nismo non si è mai dimenticato. Nemmeno quando i

successi in gara e i titoli conquistati – quattro, ed è un primato assoluto –

gli hanno consegnato nel Paese del Sol Levante una popolarità a dir poco stellare.

Classe 1979 (40 anni lo scorso 9 agosto), cresciuto con il

mito di Ayrton Senna, suo idolo, di cui porta una collanina al collo,

Quintarelli ha sempre mantenuto i piedi per terra e un atteggiamento di rara

umiltà. Ad uno sguardo mite e ai suoi modi sempre gentili, il pilota veronese

abbina una determinazione e una capacità di concentrazione tipiche dei grandi

campioni dello sport. Dagli inizi con il kart nei primi anni Novanta, ai

successi in Formula 3 e in Super GT, il suo karma sportivo è sempre stato lo

stesso: dare il massimo per vincere.

Quintarelli, è ritornato ancora una volta, nonostante i tanti

impegni professionali, per ricevere un nuovo abbraccio dalla comunità di

Sant’Anna e veronese. Ci tiene molto, vero?

Sono quasi 17 anni che vivo in Giappone, ma qui ci sono le

mie radici. Non mi sono mai dimenticato della mia gente e, cosa più importante,

la mia gente non si è mai dimenticata di me. C’è un gruppo di amici storici,

capitanati dal presidente del Fan Club, Denis Marconi, che sono speciali, ci

mettono sempre tanta passione nell’organizzare questo appuntamento per grandi e

piccini. Un gesto che apprezzo tantissimo. Tornare per me è un dovere.

Com’è il passaggio da una metropoli da quasi 10 milioni di

abitanti, Tokyo, a un paesino di 2500 in Lessinia?

Due contesti in cui le differenze culturali e gli stili di

vita non sono paragonabili, tuttavia già dal primo giorno, quando atterro e

rivedo i miei amici d’infanzia riesco a “switchare” (cambiare, ndr) in fretta.

In entrambi i casi riesco ad essere me stesso e a sentirmi felice, e per me

questo è quello che conta.

Perché il Giappone?

Avevo 15 anni, correvo per un team di kart italiano e ho

preso al balzo l’occasione di andare a Suzuka per una gara. Sono rimasto là

qualche giorno ed è lì che è scattato qualcosa. Poi ci sono tornato anni dopo

con la Formula 3, senza più tornare indietro.

Cosa piace di noi ai giapponesi?

Il Made in Italy, ne sono i primi estimatori a livello

mondiale. Devo dire che anche gli italiani, da dieci anni a questa parte, hanno

intensificato le visite e i viaggi nel Paese asiatico, e questo mi fa molto

piacere.

Differenze?

Lo spazio quotidiano che i giapponesi dedicano al lavoro. C’è

una parola, “shigoto” (impiego, ndr). Quando viene pronunciata, passa tutto in

secondo piano. È al primo posto delle priorità.

Pregi?

Il rispetto per le persone, per le regole, per il bene

comune. La parola. Quanto vale una parola. Quando non la si rispetta ci si

trova davanti a un grave affronto. Anche la gentilezza, ad esempio nei

confronti dei turisti, la puntualità, la precisione.  

Nel Paese del Sol Levante lei è un idolo sportivo. Cosa le ha

dato la popolarità? Quali responsabilità?

Mi ha dato una consapevolezza: quello che costruiamo con

fatica in tanti anni, può essere vanificato in pochi secondi. La rigidità delle

regole in Giappone impone una certa formalità, e lo trovo corretto. In questo

momento rappresento una casa automobilistica importante, uno staff di professionisti

seri, un brand conosciuto a livello mondiale. È giusto avere tatto e

attenzione.

Nello sport esiste la riconoscenza?

Nello sport è facile essere osannati quando si vince, quanto

dimenticati o messi in disparte quando non arrivano le prestazioni. I risultati

acquisiti sul campo, tuttavia, rimangono, ma mai pensare di essere arrivati,

mai adagiarsi. Almeno questa è la mia filosofia.

Quattro titoli di Super GT in cinque anni, dal 2011 a 2015,

poi un terzo, un secondo e un ottavo posto, nella stagione scorsa. È diventato

più difficile vincere?

Il livello generale si è alzato. Nismo rimane il riferimento

per il motorsport per il Giappone. Il reparto corse della Nissan è storico ed è

quello che ha più tifosi in questo Paese. Qui si lavora con il cuore, senza

sofisticazioni politiche. In questi anni è stato proprio il cuore, nel caso dei

successi, ma anche dei piazzamenti, a fare la differenza per ridurre il gap

contro i colossi Honda o Lexus.

Cosa intende?

Dalla fine degli anni Novanta, Nissan condivide a metà con

Renault l’azione commerciale sul mercato globale. Nel settore sport ci sono

fondi destinati alla Formula 1, alla Formula E, al Super GT. Equilibri

finanziari diversi rispetto alle case interamente giapponesi che ho citato

prima e che possono concentrare le loro risorse in un’unica direzione, o quasi.

Vi sentite inferiori tecnicamente a Honda e Lexus?

In questo momento sono davanti, ma siamo comunque

competitivi. Il 2018 è stato il primo anno dal 2009 in cui non sono stato in

lotta all’ultima gara per il Titolo finale. Per me è stata una grossa delusione.

Anche perché avevamo iniziato molto bene, con una vittoria, e poi il declino.

Siamo arrivati scarichi, senza forze.

Tra l’altro siete scesi in pista all’ultima gara sapendo che

era inutile ai fini della classifica…

Per alcuni piloti anche vincere solo una gara è un risultato

straordinario. Per me un po’ meno: dopo aver vinto quattro titoli, parto sempre

per agguantare il quinto.

Anche quest’anno avevate iniziato bene…

Due secondi posti,a Okayama e sul circuito di Fuji.

Poi il ritiro per guai tecnici a Suzuka nella terza gara, un undicesimo posto in

Thailandia su una pista a noi tradizionalmente ostica e di nuovo sul podio,

terzi, ancora a Fuji. Mancano tre gare, la prossima, 7 e 8 settembre

all’autodromo di Autopolis. Ce la metteremo tutta.

Al Fuji, con la conquista della Pole, ha spento le 40

candeline con una torta a sorpresa. Sta iniziando a fare i conti anche con

l’età?

Non ci sto pensando. Il 9 agosto ho compiuto gli “anta”, e

per me questo è un ulteriore stimolo per fare meglio. Grazie anche all’aiuto di

un coach personale, ogni anno cerco di limare il più possibile e di curare

sempre di più i dettagli con un costante lavoro quotidiano. Per me una sfida,

lo faccio con piacere.

Lo sforzo alla guida della monoposto è faticoso?

Le macchine del Super GT sono le gran turismo più veloci al

mondo. A Yokohama abbiamo registrato tempi con i quali nel 1995 saremmo

arrivati a metà classifica nel GP di Formula 1. Portare la Nissan Nismo al

limite non è facile, soprattutto controllare la velocità in curva: i tempi di

reazione rappresentano il tallone d’Achille per molti piloti della mia età.

Come si prepara?

Tanto allenamento fisico, dal mattino presto alla sera ho un

programma dettagliato da seguire. E devo fare attenzione a molte cose, dal peso

corporeo allo stretching per la vista, che non deve mai mancare.

Cosa significa per lei migliorare, oltre alle prestazioni

fisiche?

Innanzitutto vincere il quinto titolo, sarebbe difficile

eguagliare poi questo eventuale altro primato. Poi migliorare la classifica

delle Pole, attualmente sono secondo, anche se distante dalla prima posizione,

e sono quarto nella graduatoria dei successi personali, 14 contro i 20 del mio

collega Matsuda, che si trova in testa. Che sia giocare a carte o una gara di

super GT, cerco sempre la vittoria.

Sappiamo che ha provato in pista la Ferrari di Nigel Mansell,

anche se il suo mito è Senna.

Sono nato con il mito di Ayrton, con la sua McLaren Honda

bianca e arancione con lo sponsor Marlboro. La Ferrari, tra gli anni Ottanta e

Novanta, era la macchina che faceva fatica, con Mansell, Prost, Berger.

Tuttavia sono salito su una F1 che nel 1989, nel GP d’Ungheria, ha lottato con

il mio mito. Già questo pensiero mi ha dato un’adrenalina incredibile.

Com’era la “rossa” alla guida?

Tanti cavalli, 12 cilindri, un urlo del motore da paura. Macchina

di per sé rivoluzionaria perché aveva introdotto il cambio semiautomatico al

volante.

In molti l’avrebbero vista bene anche in F1 e c’era andato

vicino. Ha qualche rimpianto?

No. La Formula 1 è il campionato di riferimento in Europa. Ci

sono 20 posti per piloti che vengono da tutto il mondo. Io sono partito da zero,

a livello famigliare, nelle corse. Se fossi partito con una strategia e con

qualcuno alle spalle, probabilmente, avrei potuto giocarmela, e, senza falsa

modestia, competere per il Titolo. Ma sono contento del percorso che ho fatto

qui in Giappone.

Il kart?

Grande palestra. Quelli che vanno forte con questo mezzo,

vanno forte anche in macchina. Mi confronto tuttora in pista con ragazzi di 13

o 14 anni, mi serve per capire quanto gap fisico mi distanzia da loro. Cercare

di spingere con il kart, che è massacrante, mi permette di migliorare.

Lei ha due bimbi. La seguono nel suo lavoro?

Luna e Leo vengono sempre alle gare assieme a mia moglie Emi.

Sono molto severi ed esigenti con me. Mi sono di grande aiuto.

A proposito di Emi, vi siete conosciuti in un talk show

televisivo, giusto?

Sì, era spettatrice tra il pubblico. È stata la mia vittoria

più grande.