Storie del territorio | 15 dicembre 2013, 15:33

La nuova povertà, in giacca a cravatta

Giovani in cerca di lavoro, commercianti, piccoli e medi imprenditori costretti a chiudere e anche quel ceto impiegatizio che non ce la fa ad andare avanti. Questa nuova tipologia di poveri, che si sta affacciando con evidenza sempre maggiore, è stata al centro del dibattito “Emergenza povertà”, tra gli appuntamenti più attesi del Festival della Dottrina Sociale, andato in scena a Verona dal 21 al 24 novembre.

“Quando vado al lavoro i senzatetto mi fermano per strada per chiedermi l'elemosina. Mi vedono perfettamente vestita e truccata, perciò pensano che io mi possa sicuramente permettere di regalare almeno qualche centesimo. Non sanno che ho un contratto da 500 Euro al mese, che l'affitto della mia stanza, in un appartamento condiviso con altre quattro persone, ne costa 350 e che, quindi, a trent'anni, vivo con 150 euro al mese. […] i miei bei vestiti sono stati acquistati quattro o cinque anni fa, quando della crisi non c'era nemmeno il sentore, a volte la sera vado a letto senza mangiare e quando esco con gli amici, li raggiungo dopo cena perché mangiare al ristorante è una spesa che non mi posso permettere”. Questo è lo stralcio di una lettera aperta pubblicata qualche mese fa sul Il Corriere della Sera, che aiuta a comprendere l'entità del fenomeno più grave che sta colpendo l'Italia della crisi: il ceto medio, la cosiddetta 'borghesia', sta subendo una abbassamento del proprio status sociale. Persone che, prima del 2008, avevano una possibilità di spesa superiore al loro reddito, e che potevano acquistare beni di consumo non essenziali, oggi spendono più di ciò che guadagnano solo per i beni di prima necessità. Questo azzera non solo la loro capacità di acquisto, ma anche quella di risparmio. Sono loro i nuovi poveri, e sono in continuo aumento.

Si è parlato di questo nel corso del convegno “Emergenza povertà: disoccupazione, precarietà, aumento dei poveri”, organizzato all'Auditorium della Gran Guardia di Verona lo scorso 23 novembre, nell'ambito della terza edizione del Festival della Dottrina Sociale. Al tavolo dei relatori, Massimo Castellani, segretario provinciale della Cisl, ha esordito con i numeri dell'emergenza: «Secondo i dati Istat, oggi, l'8% degli italiani vive in condizioni di povertà assoluta e il 12,7% di povertà relativa». Non serve essere economisti per rendersi conto che si tratta di percentuali in crescita, che prima colpiscono le categorie più deboli, come donne e immigrati, poi tutti gli altri. «A partire dal secondo dopoguerra la società si era strutturata in modo preciso: per rispondere alle esigenze di una famiglia media, e garantire un bilanciamento di entrate e uscite, erano necessari due redditi. In mancanza anche di uno dei due, si cade nella povertà». Si tratta di una nuova tipologia di indigenti. Se prima i poveri rientravano in categorie ben definite, come anziani con pensione minima, malati ed extracomunitari, adesso questa condizione si apre a fasce sempre più ampie della popolazione: persone che fino a pochi anni fa avevano un impiego, una casa e una vita normale. Sono per lo più commercianti, piccoli e medi imprenditori, la cui azienda è fallita sotto il peso di tasse e insoluti, insieme a quell'esercito di professionisti freelance, lavoratori autonomi e consulenti che pagano il dazio del cattivo utilizzo della flessibilità nei contratti di lavoro: «Ormai si può pensare ad un progetto di vita solo se si ha un contratto a tempo indeterminato» ha concluso Castellani, «ma in Italia questa è un'ipotesi che si verifica solo per un 15% sul totale delle assunzioni, in favore di una flessibilità abusata, messa in pratica in modo assolutamente improprio, non come elemento di ricchezza per le imprese, ma solo come opportunità di risparmio sul costo del lavoro. Il risultato è una precarietà che definirei da 'macelleria sociale'».

Ad avanzare ipotesi di cambiamento ci ha pensato Claudia Faschi, Vicepresidente di Confcooperative, che ha sottolineato un tratto fondamentale della società attuale: «Dobbiamo recuperare la nostra dimensione di cittadini e cambiare il significato che diamo al termine lavoro che, se ieri era sinonimo di reddito, da utilizzare per acquistare beni, oggi dovrebbe voler dire partecipazione». Dare lavoro ai giovani, per chiamare in causa la categoria che più soffre della recessione, non deve significare dare loro denaro, ma affidare un ruolo, un modo con il quale possano contribuire e partecipare allo sviluppo del mondo in cui vivono. Simile anche l'opinione di Giancarlo Abete, Presidente di UCID (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti): «serve una legge che garantisca una ridistribuzione equa del reddito e una scelta strategica che vada oltre l'individualismo nel quale ci siamo richiusi quando è venuta a mancare la nostra fiducia nei confronti dei ceti dirigenti».

A mettere d'accordo tutti i relatori, tra cui figurava anche Leonardo Becchetti, docente di Economia Politica all'Università Tor Vergata di Roma, è proprio la possibile soluzione a questa empasse. Nel mondo occidentale sembra essere venuto meno un patto sociale: un accordo tra le parti secondo il quale, chi era dotato di capitale, lo metteva a disposizione delle imprese, che lo impiegavano per produrre e vendere beni di consumo ed assicurare così il circolo virtuoso dell'economia. Ricostruire significa ricomporre questa frattura, e, nel vortice di un cambiamento epocale come quello che stiamo vivendo, è impensabile provare ad agire come individui singoli, serve ricercare un obiettivo comune, a cominciare da quello che Faschi ha definito “il primo ingrediente di speranza”: il desiderio di cambiare le cose.