Storie del territorio | 15 febbraio 2016, 16:52

Si è globalizzato tutto, anche l'indifferenza

Durante la tre giorni “Le pietre scartate: vite inutili o pietre angolari?”, che si è tenuta tra il 29 e il 31 gennaio a Verona, il sociologo di fama internazionale Zygmunt Bauman è intervenuto per parlare di fragilità umana, di esclusione e di tutte quelle vite “scartate” che dimentichiamo ai cigli della nostra coscienza.

Uomini rifiutati, vite gettate perché rischiosamente fuori parametro. È drammatica, quanto lucida la diagnosi sul mondo contemporaneo del professor Zygmunt Bauman, ospite d'onore del ciclo di incontri promosso dall'associazione Le pietre scartate Onlus. Il sociologo polacco, che è intervenuto venerdì 29 gennaio al convegno “Le pietre scartate: vite inutili o pietre angolari”, presso l'aula magna dell'ateneo veronese, ha sottolineato, durante un precedente incontro con i giornalisti, come la modernità tra i suoi innumerevoli figli abbia dato i natali anche ad una logica estremamente rischiosa, quella eugenetica. In una società che venera il nuovo diventa scoria, per forza di cose, non solo ciò che invecchia ma anche ciò che è diverso e che, come tale, «minaccia l'ordine».

In particolare, «l'elemento che viene percepito come imperfetto diviene una sorta di 'rimosso' per la nostra modernità», ha spiegato lo studioso novantenne. La storia tiene dentro di sé esempi tragici di questa utopia disumanizzante, in nome della quale «la Germania nazista si è liberata degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, degli avversari politici, delle persone che disturbavano l'ordine che si era deciso di realizzare, dove non c'era posto per chi non rientrava nei suoi schemi».

Il desiderio dell'uomo di conciliare la morale alla ragione c'è sempre stato ed «è alla base dei tentativi necessari per inserirci nella civiltà. Lo stesso Tommaso Moro nella sua L'Utopia inseguiva la speranza di rendere possibile questa conciliazione». Il paradosso è che per costruire un mondo migliore si debba far sì che «ogni cosa e ogni persona occupi il posto giusto».

In questa logica, l'imprevisto, il "fuoriposto" diventa la “sporcizia” da eliminare. «Le scarpe più pulite del mondo se io le metto sul tavolo sfidano l'ordine e vengono percepite come sbagliate. L'utopia si fonda sull'idea che ci sia un posto giusto per ciascuna cosa. Il fatto di cercare di realizzare un luogo privo dalle 'erbacce' ha generato realtà del tutto distopiche. Il problema della scienza è anche questo».

Dietro l'angolo, se si segue questo impianto di riferimento, c'è il pericolo di passare dalla cultura dello scarto consumistico a quella atroce dei “rifiuti umani”, per i quali «non c'è un posto giusto» ed è lontana la speranza di una collocazione. Bauman, polacco con sulle spalle una storia di migrazione non dissimile da quella dei moltissimi di oggi, non ha nascosto il riferimento preciso alla condizione dei migrati che bussano e sfidano, così, le nostre frontiere. Il profugo è «un messaggero di sventura», lo temiamo perché ci racconta di una fragilità, che è anche nostra. «Il rifiuto nasce dalla paura che accompagna la nostra proiezione».

Quando osteggiamo l'arrivo dei migranti in realtà, secondo lo studioso, stiamo cercando di allontanare da noi stessi la possibilità, un giorno, di essere sottoposti alla medesima sorte. Così, «quando guardiamo un profugo in realtà stiamo guardando in filigrana noi stessi». Non esiste più la classe media oggi, ha sottolineato il sociologo; siamo diventati una collettività precaria. E, infatti, il proletariato e la piccola borghesia hanno finito per riassumersi in un'unica categoria: il precariato.

L'invito costantemente suggerito verso una sempre maggiore "flessibilità", non è che la lucente quanto effimera vernice che cela la vulnerabilità e l'incertezza del contemporaneo. «I governi non sono più in grado di fronteggiare i problemi legati alla globalizzazione e scelgono, così, dei bersagli contro i quali sparare le loro salve retoriche».

Da qui l'assurdità della modernità, attraversata da due anime, con esigenze complementari. La prima è la costruzione dell'ordine che pretende la rimozione di quanto sfugge i suoi parametri. La seconda anima è il progresso economico che, come tale, fugge gli individui che non possono essere impiegati nell'ambito produttivo o, peggio ancora, che sono privati della possibilità materiale di farsi consumatori. E infatti come si legge nel recente lavoro di Bauman, Vite di scarto (Laterza, 2005), «il bene primario della società dei consumatori sono i consumatori; i consumatori difettosi sono il passivo più irritante e costoso».

In questa ottica, i migranti rappresentano il caso più estremo di individui che hanno perso la loro identità e che sono respinti ovunque. Ma quelle colonne di persone in cammino senza nomi e storie, l'etichetta di “degno e appropriato”, nel paese che lasciano, la stringevano addosso esattamente come noi. Diventano "sbagliati" perché, semplicemente, "fuoriposto". «In questo mondo globalizzato siamo precipitati nell'indifferenza globalizzata, il dolore degli altri non ci interessa più. Ed è molto triste e molto pericoloso», ha concluso il sociologo.

Transitare, allora, dalla cultura dello scarto a quella dell'inclusione e dell'integrazione, non è solo una scelta auspicabile, ma bensì «l'unica via che ci rimane». Solo se amata e compresa, infatti, la "pietra scartata" può trovare il suo posto nell'edificio del contemporaneo. In certe fragilità, cerchiamo di non dimenticarlo, riposa la forza.