Storie del territorio | 29 settembre 2015, 10:37

“Una sola Madre Terra” – Festa dei Popoli 2015

In occasione della 24esima edizione della Festa dei Popoli, il cui slogan – “Una sola Madre Terra” - richiama alla fratellanza, ripercorriamo la storia di questo appuntamento, che richiama ogni anni migliaia di visitatori, alla scoperta delle tante culture che rendono ricca la nostra città.

 

C’è un evento che si ripete da 24 anni, a Verona, nel giorno di Pentecoste, che è diventato imperdibile per una buona fetta di veronesi, sia per quelli “de soca”, che per i “nuovi” arrivati, che di nome fanno Patrick, Hakim, Mohammed, e riempiono di colori, suoni e sapori diversi le strade della nostra città. Si tratta della Festa dei Popoli, nata nel 1991 da un’idea del Centro Missionario Diocesano di Verona, subito sposata da altre realtà locali che si occupano di intercultura e immigrazione, come Cestim, Caritas, Centro Pastorale Migranti, Padri Comboniani. Queste realtà, insieme alle numerose associazioni di immigrati nate a Verona e provincia negli ultimi decenni, hanno contribuito a dar vita a un appuntamento che richiama, all’interno del parco di Villa Buri, a San Michele Extra, migliaia di persone (in media 10.000 in un unico pomeriggio), attirate da uno spettacolo fatto di musica, canti, danze e piatti tipici di oltre una trentina di differenti Paesi. La sorpresa sta nel vedere, racchiuse in un unico appuntamento, tante diverse manifestazioni di culture ricche di storia e tradizioni solo apparentemente lontane da noi, essendo l’espressione di quei “nuovi” veronesi che vivono accanto a noi, lavorano nel negozio sotto casa, frequentano la stessa scuola dei nostri figli. La Festa dei Popoli, quindi, è la festa di tutti i veronesi, espressione di una inclusività che, tra percorsi travagliati, vittorie e qualche sconfitta, sta dando sorprendenti frutti.

 

«Dobbiamo l’idea della Festa dei Popoli a don Luigi Verzè, allora direttore del Centro Missionario Diocesano, a padre Adriano Danzi, comboniano di grande esperienza missionaria, mancato qualche anno fa, e a Eugenio Danzi, che ci ha lasciati prematuramente. L’iniziativa ha trovato subito terreno fertile e molte altre realtà, nel tempo, si sono unite nella sua realizzazione» spiega don Giuseppe Mirandola, direttore del Centro Pastorale Migranti e del Centro Missionario della diocesi.  «A loro, e a quanti li hanno sostenuti e incoraggiati, va il merito di aver voluto rendere “visibile” la ricchezza umana e culturale degli immigrati che vivono a Verona, un aspetto che solitamente passa in secondo piano quando si parla di immigrazione, a favore di analisi più strettamente politiche ed economiche». In una città ricca di contraddizioni come la nostra, sono in molti a darsi da fare per chi, arrivando da lontano in cerca di nuove possibilità, ha bisogno di una mano per inserirsi in una nuova realtà, e lo fanno impegnandosi in attività assistenziali e caritative che cercano di venire incontro alle richieste di prima necessità - casa, lavoro, pasti caldi, vestiti; è necessario però, parallelamente, creare anche un incontro umano tra le persone, tra chi chiede e chi dà, tra chi ha bisogno e chi ha il sovrappiù. La priorità è proprio l’incontro, l’accoglienza vera, la conoscenza e la stima reciproca, e questa Festa rappresenta un’incredibile occasione in questi termini. In questa visione, il giorno di Pentecoste non è stato scelto a caso: in questo giorno, infatti, agli apostoli è stata donata la capacità di predicare in altre lingue, segno che il messaggio cristiano non è destinato a pochi, ma è per tutti. «Per questo – prosegue don Mirandola - il cristiano riconosce che chi gli sta accanto, indipendentemente dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione, è un fratello o una sorella».

 

«Qualcuno – conclude il sacerdote -  mi ha chiesto se abbia ancora senso celebrare questa festa alla luce dei drammi che continuano a consumarsi nel Mediterraneo, della difficoltà nel trovare politiche adeguate per affrontare la realtà della immigrazione e a un dibattere sociale e politico dai toni aggressivi, generici e strumentali. A loro ho risposto che abbiamo bisogno di segni positivi, di momenti di incontro con l’altro che siano belli, sereni, forse “leggeri”, ma non per questo privi di significato. Durante questo appuntamento non facciamo grandi discorsi, né svisceriamo tutti gli aspetti dell’immigrazione, ma la Festa è lì da 24 anni come momento lieto di incontro nella diversità che rivela la ricchezza della nostra Madre Terra, a cui abbiamo dedicato questa edizione, sull’onda di Expo e con la convinzione che non si possa continuare ad adottare stili di vita che generano ingiustizie tra i popoli rispetto all’accesso al cibo e allo sfruttamento dei territori. La Festa è un segno “profetico”, è un “sogno” di quello che potrebbe essere la nostra vita quotidiana. Mettiamo con coraggio questo segno/sogno nella vita della nostra città, lavorando perché quanto celebriamo a Villa Buri diventi pian piano il quotidiano di ciascuno di noi».